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Assistenza e consulenza

per il sovraindebitamento

audizione sul suicidio medicalmente assistito


Audizione in III Commissione Sanità e Politiche sociali del Consiglio Regionale della Toscana sulla P.D.L. di iniziativa popolare n. 5 recante “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”      

Seduta del 19 novembre 2024

Ill.mi Consiglieri,

nel ringraziare per il gradito invito, interverrò in rappresentanza del Centro Studi Rosario Livatino.

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Tratterò cinque distinti temi:

1) l’incompetenza legislativa regionale in materia di regolazione del suicidio assistito;

2) la portata modificativa della P.D.L. rispetto alla disciplina introdotta con la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale;

3) l’incidenza della P.D.L. sull’autodeterminazione terapeutica e le pronunce di illegittimità delle leggi regionali del Piemonte n. 21/2007 e del Friuli-Venezia Giulia n. 4 e n. 16/2015, decise dalla Corte costituzionale (cfr. sentenze n. 438/2008 e n. 262/2016);

4) i dubbi definitori sul requisito del trattamento di sostegno vitale e l’impossibilità di una definizione da parte della legge regionale;

5) la possibilità e l’opportunità per la Regione Toscana di intensificare il sistema delle cure palliative e le politiche già intraprese, a più ampio raggio, per la prevenzione del suicidio.

  1. La Regione è incompetente a dettare norme sui tempi e sulle modalità di erogazione del suicidio assistito

Oggetto della P.D.L. è,ai sensi dell’art. 1, 1° co., la disciplina di tempi e modalità per l’erogazione delle prestazioni per il suicidio assistito alle persone che ne facciano richiesta, nel rispetto dei princìpi della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale.

Fermo restando quanto si dirà, sub 2, sulla portata (in realtà) innovativa (e non meramente esecutiva) della disciplina di cui alla P.D.L. rispetto alla sentenza n. 242, occorre domandarsi se la Regione abbia competenza a legiferare in materia, anche qualora effettivamente si limiti a intervenire su tempi e modalità delle prestazioni di fine vita. Tali prestazioni, infatti, incidono sull’esercizio di diritti fondamentali della persona, quali il diritto alla vita e il diritto alla dignità, e sull’esercizio dell’autodeterminazione terapeutica (la quale comprende, come noto, per il diritto vivente, sia il rifiuto della cura sia la richiesta di suicidio assistito. Siffatta richiesta non è, tuttavia, qualificabile, stando alla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, come diritto soggettivo).

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Per rispondere al quesito, è utile fare in apertura un richiamo al parere dell’Avvocatura Generale dello Stato del 15 novembre 2023, reso rispetto alla P.D.L. n. 7 della Regione Friuli-Venezia Giulia e alla P.D.L. n. 217 della Regione Veneto. L’Avvocatura Generale ha preso le mosse dalle affermazioni della Corte costituzionale – contenute nella sentenza n. 242/2019 e nella sentenza n. 50/2022 (sulla inammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p.) – che ribadiscono la centralità del diritto alla vita e la irrinunciabilità della sua tutela penale anche dinnanzi alla richiesta di morte del suo titolare. La tutela penale si arresta solo ove sussistano le condizioni, di cui al dispositivo della sentenza n. 242, di non punibilità della condotta di aiuto, quale ipotesi eccezionale[1]. Ne discende che una disciplina che dettasse (anche solo) norme su tempi e modalità per l’erogazione delle prestazioni di suicidio assistito assurgerebbe a disciplina sull’esercizio di diritti fondamentali che ineriscono la sfera più personale del soggetto. Tale disciplina rientra, tuttavia, nell’ordinamento civile e spetta, dunque, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. l), Cost.

Si deve, poi, considerare che, anche qualora la P.D.L. si limitasse a dettare – ma così non avviene nel testo all’esame – norme su tempi e modalità della prestazione dell’aiuto al suicidio non punibile, una simile disciplina avrebbe inevitabilmente effetti sul piano penale, andando a individuare, almeno in parte, gli elementi costitutivi della causa di non punibilità (o della scriminante procedurale). Si osservi che, a fortiori se si ritiene che quella introdotta dalla sentenza n. 242 sia una scriminante procedurale, è proprio il rispetto di certe modalità e di una certa sequenza di atti nello svolgimento della condotta a consentire all’autore del fatto di reato di andare indenne da pena. Pertanto, la disciplina dei tempi e della modalità delle prestazioni di morte assistita è, senz’altro, parte integrante della fattispecie scriminante e, come tale, non può che essere (eventualmente) affidata al legislatore penale nazionale.

  • La P.D.L. non detta solo norme sui tempi e sulla modalità di erogazione dei trattamenti di suicidio assistito, ma ha un contenuto modificativo della disciplina introdotta con la sentenza n. 242/2019

Fermo restando quanto sopra detto a proposito di un intervento regionale che si limitasse a introdurre norme esecutive della sentenza n. 242, la P.D.L. in esame, nonostante quanto stabilito dall’art. 1, 1° comma, non si limita, in realtà,a regolare modalità e tempi per il compimento dell’aiuto al suicidio.

Infatti:

  1. La P.D.L. trasforma la richiesta di morte medicalmente assistita da libertà a diritto soggettivo

La sentenza n. 242/2019 non qualifica la richiesta di aiuto al suicidio come diritto soggettivo, tant’è che, al punto 6 del Considerato in diritto, prevede che non sia strettamente necessario introdurre, de jure condendo, l’obiezione di coscienza dei medici cui il paziente chieda la morte medicalmente assistita poiché i sanitari sono liberi di dar seguito o meno alla richiesta, senza conseguenza alcuna[2].

Diversamente se, si trattasse di diritto soggettivo, il medico sarebbe obbligato a dare seguito alla richiesta del malato, aiutandolo nel darsi la morte.Il confronto con l’art. 1, 2° comma consente di cogliere immediatamente il contenuto inequivocabilmente innovatore della P.D.L.: compiendo, infatti, una scelta del tutto diversa da quella della sentenza n. 242, il testo regionale qualifica la richiesta del soggetto di accedere all’aiuto al suicidio come diritto soggettivo individuale e inviolabile, «che non può essere limitato, condizionato o assoggettato da altre forme di controllo al di fuori di quanto ivi previsto». Si tratta di un’impostazione contraria a quella della sentenza n. 242, in cui, a fronte del divieto, penalmente presidiato e conservato, di aiuto al suicidio, ci si limita a perimetrare uno spazio di non punibilità, in presenza delle condizioni di cui al dispositivo. Già solo per questo motivo, è evidente che la P.D.L. non intende per nulla limitarsi a dettare regole esecutive del decisum della sentenza n. 242, spingendosi piuttosto a trasformare la richiesta di suicidio assistito da mera libertà del malato, cui il medico può decidere, senza alcun obbligo, di dare o meno seguito, in un vero e proprio diritto soggettivo, da cui discenderebbe un obbligo per il sanitario di dar seguito alle volontà del paziente. Pertanto, già solo per questo motivo, è fuor di dubbio che la disciplina della P.D.L., operando tra diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione un bilanciamento nuovo e diverso rispetto a quello operato dalla sentenza n. 242, produrrebbe i suoi effetti non solo sulla disciplina che regola l’esercizio di una certa libertà, ma sulla disciplina che qualifica la natura di tale libertà, trasformandola in un diritto soggettivo con tutti gli effetti pratici (e non solo) che ne conseguono, con una evidentissima “invasione” della competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, 2° comma, lett. l, Cost.).

Peraltro, la trasformazione del suicidio assistito in un diritto soggettivo comporterebbe, come si evince, a contrario, dalla sentenza n. 242 (cfr. Considerato in diritto, punto 6), la necessità di introdurre l’obiezione di coscienza per il medico. Tuttavia, non potrebbe comunque essere una legge regionale ad introdurla, posto che ancora una volta si tratta di materia di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. l), Cost.

  • L’assenza nella P.D.L., tra i requisiti di non punibilità, del rispetto della disciplina della L. 219 del 2017

La P.D.L., nel disciplinare l’esercizio di un atto di autodeterminazione terapeutica (in vista della morte) non richiama, diversamente da quanto fa la sentenza n. 242/2019, le norme di cui agli artt. 1 e 2, L. 219/2017, cui la Corte costituzionale aveva rinviato per indicare le modalità di realizzazione della condotta non punibile di agevolazione del suicidio (in presenza anche degli altri requisiti indicati nel dispositivo). L’omesso rinvio, sul piano strettamente normativo, non consente pertanto di ritenere vincolante nella fonte regionale l’applicazione dei due articoli della L. 219. Tale omissione ha importanti ricadute pratiche che consentono di cogliere come la P.D.L. abbia, anche osservata da questo punto di vista, una portata modificativa (e non esecutiva) della disciplina introdotta con la sentenza n. 242. Infatti, il richiamo, fatto dalla Consulta nel 2019, alla L. 219/2017 è tutt’altro che una formula “di stile” e comporta che la condotta agevolatrice non sia punibile solo se, in presenza degli altri requisiti di cui al dispositivo, è realizzata nel rispetto delle modalità di cui agli artt. 1 e 2, che riguardano una molteplicità di aspetti:

– raccolta della volontà del malato (art. 1, comma 1);

– promozione e valorizzazione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, con eventuale coinvolgimento dei familiari (art. 1, comma 2);

– contenuto dell’atto del consenso informato (compreso il diritto di rifiutare l’informazione) (art. 1, comma 3);

– modi di manifestazione del consenso informato (art. 1, comma 4);

– diritto al rifiuto dell’accertamento diagnostico e della cura; diritto di revoca del consenso alla cura; diritto alla interruzione del trattamento (art. 1, comma 5);

– in caso di rifiuto: a) obbligo per il medico di “informazione rafforzata” sulle conseguenze del rifiuto; b) promozione di possibile alternativa di cura e di ogni azione di sostegno al paziente (anche psicologica) (art. 1, comma 5); c) obbligo per il medico di astenersi/interrompere la cura e conseguente esenzione di sua responsabilità (art. 1, comma 6);

– superamento della regola dell’autodeterminazione terapeutica per le situazioni di emergenza o di urgenza (art. 1, comma 7);

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– obbligo per medico di alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto del trattamento o di revoca del consenso del paziente (art. 2, comma 1);

– diritto del malato alla terapia del dolore e all’erogazione delle cure palliative (art. 2, comma 1)

– divieto per il medico di accanimento terapeutico (art. 2, comma 2);

– legittimità della sedazione profonda associata alla cura in caso di sofferenze refrattarie alla terapia, con consenso del paziente.

È sufficiente prendere contezza della molteplicità dei contenuti normativi degli artt. 1 e 2, L. 219 per comprendere che il mancato richiamo a tali fonti nel testo della P.D.L. comporta una evidente modificazione rispetto alla disciplina introdotta dalla sentenza n. 242, con innegabili ricadute (non ammissibili per il principio di riserva di legge) anche sul fronte del diritto criminale.

  • Il coinvolgimento della sanità pubblica nella fase esecutiva del suicidio assistito

Un terzo aspetto su cui la P.D.L. ha una vistosa portata innovativa riguarda il ruolo assegnato alla sanità pubblica. La sentenza n. 242 assegna, infatti, al servizio sanitario nazionale esclusivamente funzioni di controllo: la prima sull’esistenza delle condizioni che rendono non punibile l’aiuto al suicidio, la seconda sulle modalità di esecuzione della procedura di morte assistita. La P.D.L., invece, all’art. 3, 5° comma, prevede che «le aziende sanitarie regionali forniscono il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza medica per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco autorizzato presso la struttura ospedaliera, l’hospice o, se richiesto, il proprio domicilio».

Si tratta con ogni evidenza di un ruolo assolutamente diverso che comporterebbe una partecipazione attiva del personale impiegato presso le aziende sanitarie regionali negli atti esecutivi della procedura di suicidio assistito.

  • L’incidenza della P.D.L. sull’autodeterminazione terapeutica: spunti partendo dalle sentenze di illegittimità n. 438/2008 e n. 262/2016 della Corte costituzionale

La P.D.L. in esame disciplina una forma particolare di esercizio dell’autodeterminazione terapeutica; infatti, la richiesta di aiuto al suicidio (se contenuta alle ipotesi di non punibilità considerate dalla sentenza n. 242) è stata considerata, dalla sentenza n. 135 del 2024 della Consulta, espressione di autodeterminazione terapeutica. È utile, pertanto, approfondire ulteriormente se la materia dell’autodeterminazione terapeutica e dei suoi modi di esercizio possa essere regolata da una fonte regionale.

A tale quesito ha, in realtà, già risposto in senso negativo la Corte costituzionale con la sentenza n. 438/2008, che ha censurato, dichiarandola incostituzionale, la legge della Regione Piemonte 6 novembre 2007, n. 21, il cui art. 3 dettava norme sulla prestazione del consenso informato (in tal caso dei genitori o dei tutori per l’uso di sostanze psicotrope sui bambini o adolescenti) e le relative modalità.

In quella sentenza, la Corte costituzionale spiegava: la «circostanza che il consenso informato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione; discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale» (massima n. 33086 da www.cortecostituzionale.it). Pertanto, la legge della Regione Piemonte era dichiarata in contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, 2° comma, lett. m), Cost. laddove si prevede la competenza esclusiva dello Stato per legiferare in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

Se quanto detto è valso, nel 2008, rispetto alla disciplina del consenso informato (che è espressione di autodeterminazione terapeutica) in vista della somministrazione di una cura, a fortiori si deve ritenere che sia rimessa in via esclusiva alla legge statale una normazione avente ad oggetto le modalità di esercizio, ancora una volta, dell’autodeterminazione terapeutica, qui declinata come richiesta di suicidio assistito.

In tempi più recenti, la Corte costituzionale ha anche affrontato la questione di compatibilità con l’art. 117, 2° comma, lett. l) Cost., di talune norme contenute nella legge della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia 13 marzo 2015, n. 4 [Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti] nonché nella legge 10 luglio 2015, n. 16 recante integrazioni e modificazioni alla legge n. 4 cit. La Corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117, 2° comma, lett. l) Cost., affermando:

 «Data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e integrità della persona, una normativa – necessariamente articolata – in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita […] necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile”. Ne consegue che, pur avendo il legislatore statale disciplinato finora solo la donazione di tessuti e organi (legge n. 91 del 1999), l’attuale mancanza di una normativa nazionale relativa alle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario non vale in alcun modo a giustificare l’interferenza della legislazione regionale» (cfr. sentenza n. 262/2016).

La decisione del 2016, che ha escluso che la Regione abbia competenza per legiferare in materia di DAT, rappresenta un precedente particolarmente chiaro e sicuro per affermare che ad analoga conclusione si deve giungere anche rispetto alla odierna P.D.L. (anche qualora questa avesse oggetto, diversamente da come oggi avviene, solo modalità e tempi dell’erogazione del suicidio assistito). Se, infatti, per usare le parole della Corte, il tema delle disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita ha incidenza su aspetti essenziali della identità e integrità della persona e, pertanto, rientra nella materia dell’ordinamento civile riservato in via esclusiva alla legge dello Stato, ciò è vero, a maggior ragione, rispetto alla richiesta del suicidio assistito.  

Per quanto si è detto, appare corretto, alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, confermare che, su di un piano strettamente tecnico, la disciplina di cui alla P.D.L. sulle modalità e sui tempi dell’erogazione dei trattamenti di suicidio assistito non possa essere dettata da una legge regionale, per contrasto con l’art. 117, 2° comma, lett. l) e lett. m), Cost.

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  • L’incertezza nella definizione di “trattamento di sostegno vitale” e preclusione di una definizione del requisito da parte della legge regionale

L’esigenza di uniformità di disciplina, quale garanzia di eguaglianza ben evidenziata dalla sentenza n. 262/2016, su cui sopra si è detto, è resa ancora più cogente dal fatto che il trattamento di sostegno vitale, quale requisito indicato, ai fini della non punibilità, dalla sentenza n. 242/2019 – richiamato nella P.D.L., all’art. 2, comma 1, lett. b) – è oggi fatto oggetto di una lettura assai ondivaga dagli operatori del diritto.

La sentenza n. 242, peraltro richiamando l’ordinanza n. 207/2018, aveva individuato il trattamento di sostegno vitale nella ventilazione, nell’idratazione e nell’alimentazione artificiale (cfr. punto 2.3. del Considerato in diritto).

Un noto quanto tragico precedente di merito ne ha, in seguito, vistosamente ampliato i contorni, facendovi rientrare anche il trattamento, di tipo farmaceutico, assistenziale o paramedico, in assenza del quale si innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito, non necessariamente immediato, è la morte del malato (cfr. C. Ass. Massa, sent. 27 luglio 2020, dep. 2 settembre 2020; confermata da Corte di assise d’appello di Genova, 28 aprile 2021, dep. 20 maggio 2021, c.d. “caso Trentini”).

Per la sentenza n. 135 de 2024 della Corte costituzionale, sono trattamenti «quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente. Nella misura in cui tali procedure […] si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019» (Considerato in diritto, punto 8). Ne sono un esempio, sempre per la Corte costituzionale: l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente; l’inserimento di cateteri urinari; l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali.

A breve, come noto, la Corte costituzionale dovrà, tuttavia, esprimersi di nuovo sulla q.l.c. dell’art. 580 c.p., sollevata dal Tribunale di Milano, nuovamente avente ad oggetto il tema del trattamento di sostegno vitale (udienza marzo 2025).

Le incertezze applicative cui ora si è fatto solo cenno rispetto al significato da attribuire al requisito del “trattamento di sostegno vitale” – requisito che, peraltro, ha immediati effetti in materia penale, ai fini di un giudizio di punibilità/non punibilità – evidenziano ancor di più come l’intervento di una legge regionale (e, pertanto, di più leggi regionali) sarebbe fonte di una parcellizzazione di disciplina, in grave contrasto con l’art. 117, 2° co., lett. l) Cost. Né, per far fronte a tale incertezza, la legge regionale potrebbe definire cosa sia il trattamento di sostegno vitale, appartenendo senz’altro tale definizione alla materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.

  • L’intensificazione delle cure palliative e delle politiche, già intraprese dalla Regione Toscana, per la prevenzione del suicidio

La P.D.L. non contiene un richiamo esplicito alle cure palliative, come prerequisito all’accesso alla richiesta di suicidio assistito. È pur vero che l’art. 3, comma 4, recita: «in caso di rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e di ogni altra soluzione praticabile ai sensi della legge 22 dicembre 2017, n. 219...» e che, tra le soluzioni contemplate dalla L. n. 219, vi sono anche le cure palliative. Infatti, l’art. 2, 1° co., L. 219 garantisce al paziente, apertis verbis, l’accesso alle cure palliative, definito dalla Organizzazione mondiale della sanità, un diritto umano fondamentale, come si legge nel parere sulle cure palliative del Comitato nazionale per la Bioetica del 14 dicembre 2023[3].

Come noto, il previo coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative è, nell’impianto della sentenza n. 242, un imprescindibile pre-requisito di non punibilità. Si legge in sentenza:

«Deve quindi, infine, essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010”. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018). Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 (“Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”), il Comitato nazionale per la bioetica, pur nella varietà delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”. Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative» (Considerato in diritto, punto 2.4, grassetto mio).

L’assenza (testuale), nel testo della P.D.L., delle “cure palliative” è, tuttavia,  emblematica e, ancora di più dopo la sentenza n. 135/2024 che fa uno stringente appello al legislatore per l’implementazione delle stesse su tutto il territorio nazionale (cfr. Considerato in diritto, punto 10), manifesta una evidente “rottura” di prospettiva della P.D.L., dalla quale traspare una presa di distanza dall’idea che la vera risposta da offrire al malato sofferente non è l’esecuzione della richiesta di morte, ma la cura del dolore, insieme alla tutela della vita. Questa è l’impostazione persistente della giurisprudenza costituzionale, ancora ribadita dalla recente sentenza n. 135/2024, a riprova del fatto che, per lo Stato italiano e, quindi, anche per le sue Regioni, ogni vita umana è degna di essere vissuta e, dunque, deve essere protetta (cfr. espressamente sentenza n. 135, Considerato in diritto,punto 7.3).

La priorità politica è, dunque, curare la sofferenza, cioè rimuovere le cause che portano le persone gravemente malate a maturare una volontà di morte. Questa è l’unica opzione realmente adeguata a un dovere di solidarietà che trova la sua fonte nell’art. 2 Cost., oltre che nello statuto antropologico della persona. 

Da questo punto di vista, è meritevole l’attenzione che la Regione Toscana ha già rivolto in passato alla prevenzione dei suicidi nel territorio regionale (cfr., ad es., mozione n. 427 approvata dal Consiglio Regionale il 10 novembre 2021; O.D.G. Consiglio Regionale 26 giugno 2023; ODG Consiglio Regionale del 21 dicembre 2023). Anche se in quegli atti non si tratta espressamente di prevenzione del suicidio di soggetti gravemente malati, tali impegni, assunti dalla Regione, sono meritevoli ed espressione di una volontà di aiutare le persone a rimuovere e superare le condizioni sfavorevoli che portano a maturare una volontà di morte. Il suicidio, infatti, è sempre, a prescindere dalle condizioni in cui versa chi intende togliersi la vita, un atto di somma disperazione, dinnanzi al quale l’ordinamento, questa volta sì anche regionale, può e deve predisporre ogni rimedio preventivo, pena un’offesa irrimediabile del bene della vita e la perdita del senso del valore inalienabile di ogni persona.  

Conclusioni

Si auspica, dunque, che la strada che vorrà imboccare il Consiglio regionale della Regione Toscana non sia soltanto quella di non legiferare sul suicidio assistito – ciò perché andrebbe incontro al rischio di una sentenza di illegittimità costituzionale per le ragioni tecniche che si sono esposte in questo parere – ma che voglia, piuttosto, intensificare le politiche, già lodevolmente avviate, di prevenzione del suicidio, le quali, declinate nell’ambito della patologia grave, richiedono un’implementazione del sistema delle cure palliative congiuntamente a campagne di informazione che rendano edotta la popolazione circa la possibilità di accedervi.

Si ringrazia per l’attenzione e si augura un proficuo lavoro,

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Torino-Firenze, 19 novembre 2024

Prof. Avv. Carmelo Leotta


[1] Per mera comodità si riporta il testo del dispositivo della sentenza n. 242/2019, con cui la Corte costituzionale «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

[2] Si riporta il testo, contenuto al punto 6 del Considerato in diritto,della sentenza n. 242/2019: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».

Il quadro non è cambiato con la sentenza n. 135/2024. Cfr. A. Barbera, La Costituzione come bene comune. Relazione del 23 agosto 2024 a Rimini, durante la 45a ed. del Meeting per l’amicizia fra i popoli, “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo”, disponibile su www.cortecostituzionale.it, sezione Comunicati e Conferenze stampa. In quell’occasione il Presidente della Corte ha chiarito, in commento alla sentenza n. 135 del 2024: «Nella decisione viene affermato che “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga” e a tal proposito si cita la sentenza (n. 50 del 2022) con cui la Corte aveva non ammesso il referendum abrogativo che avrebbe di fatto reso legittimi possibili forme di eutanasia; viene invece riconosciuto – lo dico in sintesi – non un diritto a darsi la morte ma, se mai, solo un diritto a lasciarsi morire, rifiutando ulteriori terapie (come consentito dall’art. 32 della Costituzione). Solo in taluni limitatissimi casi, sarebbe possibile richiedere un aiuto ad agevolare la propria decisione (un aiuto a morire e non solo “nel morire”, come nel ricorso alle cure palliative)».

[3] Cfr. CNB, Parere Cure palliative, 14 dicembre 2023, online su https://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri/cure-palliative/#:~:text=Nella%20sezione%20iniziale%20del%20Parere,misurano%20con%20patologie%20cronico%2Devolutive.





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