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Autonomia differenziata, sia la sinistra ora a rilanciare


di
Marco Demarco

Il dato nuovo è che, alle condizioni poste, la riforma si può realizzare. Rimanere fermi avrebbe un costo elevato

La sinistra parla di una legge «sostanzialmente affossata». Se non addirittura «bombardata». E ha le sue ragioni. Ma esagera quando dice che è «palesemente incostituzionale». Se c’è una cosa certa, infatti, è che la Corte costituzionale «ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata». Punto. Anzi virgola, perché nello stesso capoverso introduttivo del suo documento ufficiale, come si sa, la Corte aggiunge subito dopo di aver considerato illegittime «specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo».

A differenza della Sibilla cumana, i giudici costituzionali comunicano usando la punteggiatura: ciò li rende meno enigmatici e aiuta a distinguere il prima dal dopo. La confermata costituzionalità della legge, almeno nel suo involucro, viene dunque prima, e ciò vorrà pur dire qualcosa. Invece, tale aspetto è stato già archiviato, come se si trattasse di un fatto scontato. Ma che le quattro regioni ricorrenti avessero posto la bocciatura totale in cima alle loro eccezioni, vedendosela poi respinta, smentisce questa ipotesi. In più, la non incostituzionalità merita attenzione anche per un’altra ragione: per il contesto polemico in cui si è palesata. Per molti che la contestano, l’autonomia regionale è un concetto anacronistico, soprattutto in tempi di Unione europea. Per altri, una minoranza, si dovrebbe invece ritenere «incostituzionale» persino il Titolo V della Costituzione, che la prevede.
Un’idea diffusa è anche che le regioni debbano essere incluse tra le principali cause della crisi italiana, e che dovrebbero semmai essere ridimensionate o abolite, non potenziate. Senza contare chi pensa che il pluralismo istituzionale sia un lusso al momento insostenibile e che a bilanciare il centralismo dello Stato possano bastare gli ottomila comuni italiani.




















































Attraverso la censura rilevante della legge e, ancor più, con la legittimazione del processo autonomistico, è come se la Corte avesse preso in considerazione e problematizzato questi orientamenti. Con le indicazioni già preannunciate, e ancor di più con le motivazioni della sentenza previste per dicembre, ha tuttavia indicato come procedere senza deragliare. Se c’è un debito buono, alla Draghi, per intenderci, ora c’è anche la possibilità di un’Autonomia buona. E se la direzione di marcia è finalmente chiara ed è quella – sottovalutata dal governo – della centralità del parlamento, del decentramento di funzioni e non di intere competenze ministeriali, e dei principi di sussidiarietà, solidarietà ed efficienza, non si capisce perché l’opposizione non dovrebbe accettare la sfida e a sua volta rilanciarla. Sarebbe forse più consono allo spirito della Costituzione vigente lasciare tutto così com’è, sulla scia di quanto si è fatto per oltre venti anni dalla riforma del Titolo V?

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L’incognita ora sono i referendum abrogativi: quelli attualmente pendenti e quelli futuri sempre possibili. Ma il dato nuovo è che l’Autonomia non è più un tabù o un rischio assoluto. Alle condizioni poste, si può realizzare, e il processo legislativo potrebbe beneficiare anche di un primo «tagliando» costituzionale che altri analoghi tentativi non hanno mai ottenuto. Al contrario, rimanere fermi avrebbe un costo elevatissimo, perché significherebbe rinunciare ai Lep, strumenti essenziali per assicurare maggiore equità nei diritti e nei servizi; condannare le aree più deboli a un sistema di spesa storica che le isola sempre di più dal resto del Paese; e continuare a fare affidamento esclusivamente su risorse pubbliche aggiuntive che, senza una crescita economica sostenuta, difficilmente arriveranno. Sarebbe una sfida riformista. Non controriformista.

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